Gaza, kefiah e mascherina: perchè chi protesta nelle università contro Israele vuole l'anonimato

Il valore della reputazione online: i manifestanti temono per il loro futuro

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di Stefania Piras

Ci sono delle novità che caratterizzano le proteste universitarie pro Gaza. La prima che balza all'occhio? La ricerca dell'anonimato. Questa nuova generazioni di manifestanti indossa, oltre alla kefiah, le mascherine. E non lo fa per proteggersi da possibili virus. Nascondono la propria identità per tutelarsi da conseguenze per il loro futuro professionale - d'altronde si rischia la sospensione e quindi di non laurearsi - e per evitare minacce online. Essere cacciati da una scuola o bollati come antisemiti su siti web di alto profilo può rimanere una traccia pregiudizievole. 

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Il fatto che travisino il volto ha dato modo alle autorità di parlare di "agitatori professionisti". E nel dibattito che si è aperto in America, dopo gli accampamenti pro Palestina spuntati in decine di college, ci si chiede il perché di questa modalità di protesta. «Se ti presenti a una manifestazione vestito come un rapinatore di banche, non è irragionevole concludere che sei lì per fare qualcosa di diverso dall'esprimere i tuoi diritti costituzionali», ha detto Jonathan Greenblatt, il direttore generale della Anti-Defamation League, che tiene traccia degli episodi di antisemitismo. La ricerca dell'anonimato si registra in alcuni casi anche da parte di manifestanti pro Israele.


Un'inchiesta del New York Times ha approfondito le ragioni, ma soprattutto il modus operandi, di questi studenti. Un altro aspetto eclatante è il raggruppamento di istanze che non hanno niente in comune, se non l'antiamericanismo.

Rilasciano interviste ma senza condividere nome e cognome e indossando le mascherine chirurgiche o Ffp2, quelle insomma usate per proteggersi dal contagio del coronavirus durante la pandemia di quattro anni fa.  Per loro è fondamentale schermare la loro identità. Rivendicano una continuità con i movimenti degli anni Sessanta ma non sono interessati alla produzione scritta o verbale delle molte cause che sostengono, come invece era per i sessantottini.

Al primo posto c'è un nuovo valore molto contemporaneo: la reputazione. Molti intervistati dal New York Times confessano di temere di essere ripresi dai media e dai gruppi pro-Israele che li accusano di antisemitismo, e di essere immortalati in video virali. Hanno paura di ritorsioni online e di essere scartati durante potenziali offerte di lavoro. E questi timori si concentrano, scrive il quotidiano americano, nei gruppi etnici minoritari e tra gli studenti internazionali che studiano grazie a un visto.

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Almeno due college hanno pregato i manifestanti di togliere la maschera, tra cui l'Università della Carolina del Nord a Chapel Hill, dove gli amministratori hanno dichiarato che questa pratica «è contraria alle norme del nostro campus» e alla legge statale che mira a colpire chi si travisa, come membri di sette e confraternite. E l'esempio è il Ku Klux Klan.

A Yale, scrive il Nyt, gli studenti si sono preoccupati di non diffondere video delle loro proteste in cui le persone potessero essere facilmente identificate.  Alla Columbia, un membro della facoltà ha percorso il perimetro dell'accampamento scoraggiando i cameraman a riprendere chi si trovava all'interno, mentre gli studenti tenevano grandi coperte per oscurare ulteriormente le persone inginocchiate in preghiera. Gli organizzatori studenteschi hanno anche designato dei portavoce addestrati a parlare con i giornalisti. Sono girati volantini con istruzioni precise ai manifestanti a «offuscare le immagini, indossare maschere, seguire gli articoli e i fatti degni di nota». Alla U.C.L.A., gli organizzatori con megafoni hanno avvertito gli studenti di non parlare con i giornalisti a meno che non fossero “addestrati ai media”.

Uno studente di 25 anni, dottorando in informatica alla U.C.L.A., ha riferito al Nyt di aver visto le sue informazioni personali pubblicate online due volte. La prima volta, nel 2019, il suo nome è apparso su Canary Mission, un sito web che documenta «persone e gruppi che promuovono l'odio verso gli Stati Uniti, Israele e gli ebrei nei campus universitari del Nord America» e che aveva notato i suoi legami con Students for Justice in Palestine. «I miei genitori erano estremamente frustrati», ha detto. Poi ha raccontato che le persone hanno iniziato a creare falsi account sui social media usando la sua identità e inviando messaggi razzisti ai suoi professori. Il suo numero di telefono è stato anche diffuso online. «Ho ricevuto minacce di morte», ha detto.


Ultimo aggiornamento: Domenica 5 Maggio 2024, 19:05
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